Gen 18

L’IVA di rivalsa non è un credito prededucibile

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Cass. 17.1.2017 n. 1034

Nel confermare un indirizzo già consolidato, la Suprema Corte ha sancito che non è qualificabile come credito di massa – da soddisfare in prededuzione, ai sensi dell’art. 111 del R.D. n. 267/42 – l’IVA di rivalsa, indicata nella fattura emessa, successivamente alla dichiarazione di fallimento, da un professionista, il cui compenso è stato ammesso in via privilegiata, ai sensi dell’art. 2751-bis, cod. civ., allo stato passivo del fallimento medesimo, in relazione a prestazioni professionali rese anteriormente alla decozione (Cass. nn. 8544/2011 e 3582/2011).

Secondo i giudici di legittimità, l’art. 6 del D.p.r. n. 633/72, in base al quale le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, non pone una regola generale rilevante in ogni campo del diritto, ma individua solo il momento in cui l’operazione è assoggettabile ad imposta, con conseguente emissione di fattura.

L’individuazione di tale momento non implica il mutamento del soggetto nei cui confronti la fattura deve essere emessa e a carico del quale sorge il credito di rivalsa: sotto il profilo civilistico, la prestazione professionale conclusasi prima della dichiarazione di fallimento resta l’evento generatore anche del credito di rivalsa IVA, autonomo rispetto al credito per la prestazione, ma ad esso soggettivamente e funzionalmente connesso.

Ne consegue, ad avviso della Suprema Corte, che “il medesimo credito di rivalsa, non essendo sorto verso la gestione fallimentare, come spesa o credito dell’amministrazione o dall’esercizio provvisorio, può giovarsi del solo privilegio speciale di cui all’art. 2758, secondo comma, c.c., nel caso in cui sussistano beni – che il creditore ha l’onere di indicare in sede di domanda di ammissione al passivo – su cui esercitare la causa di prelazione. Nel caso, poi, in cui detto credito non trovi utile collocazione in sede di riparto, nemmeno è configurabile una fattispecie di indebito arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 c.c., in relazione al vantaggio conseguibile dal fallimento mediante la detrazione dell’IVA di cui alla fattura, poiché tale situazione è conseguenza del sistema di contabilizzazione dell’imposta e non di un’anomalia distorsiva del sistema concorsuale (così tra le ultime, le pronunce 9616/2016, 7414/2014, 8222/2011)”.

Si ricorda che sul tema si era espressa in passato anche l’Agenzia delle Entrate, con specifico riferimento agli adempimenti fiscali posti a carico del professionista percipiente.

Va segnalata, in particolare, la Risoluzione Ag. Entrate 3.04.2008, n. 127, secondo cui “… il professionista che si insinua al passivo nell’ambito di una procedura concorsuale, è portatore di un credito complessivo per prestazioni professionali, composto da imponibile ed imposta sul valore aggiunto …”, con la conseguenza che “… se l’importo liquidato dal giudice fallimentare risulta inferiore all’ammontare complessivo del credito professionale, comprensivo dell’IVA, il professionista al momento dell’emissione della fattura ridurrà proporzionalmente la base imponibile e la relativa imposta.

Quindi, non è corretto emettere la fattura per la prestazione professionale indicando, quale base imponibile, l’intero importo ricevuto dal curatore su cui calcolare poi l’IVA dovuta e, contestualmente, recuperare, tramite la procedura di variazione (art. 26, comma 2, D.p.r. n. 633/1972), l’imposta di fatto non incassata.