Cassazione Penale, Sezione Terza, 10.11.2016 n. 47265
Con la pronuncia n. 47265/2016 la Suprema Corte ha affermato che l’evidenza “[della] natura sessuale dell’atto che non comporta un mero toccamento con le labbra con una parte del corpo ma esige un’attività prolungata sul corpo stesso che, proprio per la sua durata ed intensità, esprime esattamente quella carica erotica che il concedersi con piacere alla bocca altrui comporta”.
Il caso: con la citata sentenza la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a sei anni e due mesi di reclusione nei confronti di un uomo accusato di aver imposto con violenza rapporti sessuali alla donna con la quale aveva avuto una relazione extraconiugale e che lo aveva lasciato.
Dopo aver ricordato la natura del bene tutelato dal reato e la centralità della persona offesa, unica titolare del diritto di disporre del proprio corpo a fini sessuali, e dopo aver ribadito i criteri volti a delineare l’aspetto “sessuale” di un atto, la Suprema Corte si è concentrata sul c.d. “succhiotto” o “morso d’amore”, stabilendo che il “succhiotto” è equiparato alla violenza sessuale se eseguito contro o senza il parere di chi lo subisce. Secondo i Giudici non si tratta di un mero toccamento delle labbra con una parte del corpo altrui, poiché presuppone un’attività prolungata sul corpo stesso che, proprio per la sua durata ed intensità, esprime una carica erotica. E ciò, a maggior ragione, come nel caso di specie, allorquando lo stesso sia stato utilizzato quale “strumento di una riaffermata (e malintesa) signoria sulla donna con un simbolo (il livido lasciato sul collo) che vuole significare un’intimità sessuale esattamente percepibile e percepita come tale dai consociati senza necessità di ulteriori specificazioni”. Da qui l’accostamento del “succhiotto” al reato di violenza sessuale.